I nostri racconti


giovedì 21 gennaio 2010

Capitolo 7


Ci eravamo assopiti così, abbracciati e avvinghiati l’uno all’altra. Erano ormai le 6 e 30 quando mi destai lentamente, colpa di un messaggio.
“Dove sei Riccardo?! Ti aspettavo a casa alle 3!”. Era mia mamma!
“Ma porca troia! Mi ero dimenticato, cazzo. E adesso che le dico a quella donna?!”. Dopo le mie lodi alle prostitute, Camilla si svegliò chiedendomi il perché delle imprecazioni.
“Mi ero dimenticato di scrivere a mia mamma qualche scusa per pararmi il culo… va beh, le scrivo che sono stato a scuola per una ricerca, il telefono non prendeva e che poi vado a mangiare a casa di Giò, quello di 2 AT. Che ne dici? Regge come scusa?”.
Camilla mi guardava un po’ storto, ma poi annuì.
“Beh Riky, direi che essendo le sei e mezza sarebbe anche ora di andare… O no?”. Risposi con un si distratto, mentre cominciavo a mettere nello zaino tutto l’armamentario.
Ci baciammo ancora, abbracciati in mezzo a quel deserto verde, come due statue, il cui bacio continua nell’eternità. Attraversammo il portone d’entrata e arrivammo alla stazione della metrò vicino alla statua equestre di Giuseppe Garibaldi. Camminavamo, io tenevo stretta la sua piccola mano, e tenerla così stretta m’infiammava il cuore. Eravamo sue piccioncini, io con un sorriso ridicolo stampato in faccia, lei che vagava con la mente chissà dove sulle ali di chissà qual desiderio.
“Speriamo non ci sia la simpatica signora di prima!”.
Sorridemmo entrambi quando cominciò a squillare un cellulare sulle note di “I Will Survive”.
“Pronto?” rispose Camilla. Dagli urli e dagli squittii capii che doveva essere Elena, la sua migliore amica. Intanto avevamo già comprato i biglietti e stavamo camminando con molta calma verso la fermata della linea Verde. Mentre Camilla continuava a ciarlare con l’amica (le donne sono così, quando iniziano a telefonare, non finiscono proprio più), finalmente arrivò il convoglio che, data l’ora, era traboccante di pendolari.
“Che rottura! Cami, attenta alle borse mi raccomando”. Lei annuì distrattamente ed entrammo finalmente nel mare di gente davanti a noi. Passammo i quindici minuti successivi stritolati tra i passeggeri, che ad ogni spostamento laterale o ti pestavano i piedi, o ti urtavano violentemente. Finalmente uscimmo, asfissiati dalla mancanza di aria e anche un po’ rintronati dal rumore. Sentii Camilla che salutava la sua amica e..
“La borsaaaa!!! Riccardo, mi hanno rubato la borsa!”. Lo sapevo che andava a finire così, le risposi il più dolcemente possibile.
“Non vorrei dirlo ma… Te l’avevo detto! Va beh, ormai è fatta. Non possiamo andare a fare denuncia perché saremmo nella merda entrambi, quindi direi… ceste, ormai è inutile piangere sul latte versato!”.
Camilla borbottò qualcosa ma poi mise il cellulare nel mio zaino, mi prese per mano e ci incamminammo verso la stazione che distava pochi passi dalla fermata della metrò. Preso il biglietto per Venezia, entrammo nella grande stazione per poi salire sul convoglio che, già in stazione, sarebbe partito di lì a pochi minuti. Era stata una giornata davvero intensa, prima la decisione di bruciare, l’incontro con Camilla, (e che incontro!) la partenza per Verona e l’arrivo a Milano. Il bacio. Eravamo stesi sui sedili dello scompartimento, una accoccolata all’altro, scambiandoci parole dolci e gesti affettuosi. Avevo avuto molte ragazze, ma lei era la prima che davvero desideravo e a cui tenevo per davvero. Mi aveva rapito il cuore, e ora volevo solo che lo custodisse con cura. Il viaggio mi parve durare pochissimo, colpa della dolce compagnia, colpa dei pensieri, o come mi piace definirli film. Sta di fatto che erano le 9 meno un quarto quando arrivammo alla stazione di Vicenza, svegli. Ci salutammo con molta calma, seduti su una panchina della sala d’attesa dello stabile. Non volevo andarmene ma dovetti cedere alla tentazione di stare con lei fino a tardi quando mia mamma mi chiamò per sapere a che punto ero. Solo allora mi accorsi di avere una fame terribile, ricordandomi che a pranzo non avevo toccato cibo. Dopo mille baci io e Camilla ci lasciammo, con la voglia di rivedersi il prima possibile, con il desiderio irresistibile di passare ore e ore abbracciati, in intimità. Per strada mi fermai al primo bar per comprarmi un panino e qualcosa da bere e dopo una buona mezz’ora arrivai a casa, sudato per il caldo e per la fatica. Non salutai neppure, andai diretto in camera nella speranza che mia mamma non mi chiedesse i particolari della giornata. Continuavo a pensare e a ripensare a lei. Mi ritrovai disteso sul letto, a petto nudo e con gli shorts da basket pensando alla giornata, sicuro di una cosa: ero insieme alla persona che più avevo desiderato fino a quel momento e questo mi fece dimenticare tutto ciò che c’è di brutto al mondo, anche il fatto che l’indomani avrei dovuto svegliarmi presto per andare a scuola. Mi addormentai pensando al bacio al parco e con questo dolce pensiero mi addormentai cullato dalle parole: “Non ci lasceremo mai, siamo il giorno e la notte, siamo il bene e il male, siamo il tutto e il nulla. Senza uno l’altro non ha motivo d’esistere. Ti ho desiderato per anni, e ora solo ho capito che sei tutto per me”. Le aveva pronunciato la mia principessa prima che ci salutassimo.
La notte passò velocissima, come un treno lanciato a tutta velocità verso la sua meta, qualsiasi essa sia. Fu così che la mattina mi svegliai, mi preparai per andare a scuola.
E ci andai.

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